Ephemeron

Ephemeron
Lucio Fontana - Ambienti/Enviroments @HangarBicocca 2017

Esercizio di scrittura: racconto breve (max 3600 battute) da uno spunto dato. 

Ore 23.00. Ho finito il turno, il che significa che tra 5 minuti, se mi troverò ancora nell’edificio, il mio Sottocute comincerà a mandare piccole scosse al nervo del gomito, come quando si urta uno spigolo. Ieri ho fatto tardi apposta, un po’ mi piace sentirle. Certo, ora lavoro anche nel weekend fino a tardi ma la libertà dal chip spinale lo vale tutto, questo upgrade. Guardavo uscire i miei colleghi con la goduria stampata in faccia: si gettavano sugli smagnetizzatori a spintoni, tutto per non rischiare di beccarsi la scarica dalla nuca alle gambe, che ti lascia una nausea maligna per giorni… Poi però sono andato a casa anche io, che ogni scossa mi scala dal conto fluidi ben 7 minuti. Con 10 minuti un padre di famiglia mette in tavola la cena, di questi tempi. Non mi sono mai piaciuti gli sbruffoni.

Appendo l’uniforme e mi avvio di buon passo. Il nuovo ufficio è su in cima all’Ephemeron Building, con i pezzi grossi. Proprio accanto a quello del direttore. Ha le pareti di cristallo, per permettere a tutti i dipendenti di vedere il grande conto fluidi, l’orologio più preciso del pianeta. Nella porta si nasconde anche uno smagnetizzatore a uso personale di pochi consulenti scelti: là dentro il tempo non è denaro, ma lo diventa.

Che strano, la luce è ancora accesa. E la finestra aperta. Cosa mai…

<Direttore! Si tenga forte!>

<L’ho fermato. Non gira più.>

<Chiamo aiuto!> Lo vedo scavalcare il parapetto. <Direttore! Non faccia scherzi…> ha il vuoto negli occhi.

Passare oltre uno smagnetizzatore senza permesso è un effrazione del contratto che ti scala 24 ore dal conto. Guardo il mio Sottocute: segna 23 h 21 min 13 sec. Fuori portata.

<Non si muova!>. Ma il busto si sporge in avanti, catturato dalla gravità, e io con lui.

Grido, ma è l’allarme che lo fa voltare e aggrapparsi senza pensare. Cado in ginocchio sul tappeto. Arriva la scossa nel braccio sinistro, sale dal gomito dritta al cuore. Vertigini, fortissime. Il volto bianco del direttore sopra il mio. Poi solo setole di fibra di cocco contro la guancia.

Tic Tic… mi osservo riprendere i miei passi nel corridoio, l’ascensore, i bottoncini dei piani illuminarsi a scendere uno per uno tic, tic tic. “Buonanotte Karl” dal Sottocute, all’uscita. poi la metro, il mio portone, Parsec fa le fusa sulla porta. Cena. Tilda calda sotto le coperte Tic Tic Tic “Buongiorno Karl”, ordini, pacchi ordini pranzo, ordini pacchi, fluidi che scorrono tic tic scorrono fuori goccia a goccia…

L’orologio del direttore segna sempre le 23.00.

<Ascolti, Karl, ascolti il silenzio!> guarda l’orologio assorto come sempre, come se nemmeno fossi lì, bocconi sul suo tappeto di cocco.

<Non la sente l’incertezza? L’ebrezza del presente, del tempo non quantificabile?>

Sotto di me una pozza scura. Il direttore si rigira tra le dita, il mio Sottocute, insanguinato. Nausea.

<È il tempo che si dilata, è la tangente del cerchio. È quando nelle fiabe si chiede “ancora cinque minuti” ma l’incantesimo ormai è rotto, e la tua anima mi appartiene>. Calore lungo il braccio freddo, atrofizzato.

<Un’effimera, Karl, vive esattamente ventiquattro ore. È la base del sistema: nasce, cerca un compagno, si accoppia e muore. Bisogni primari, necessari. Senza “altro”. Ma ora…possiamo avere tutto quello che il sistema non contempla, siamo in soprannumero: attimi, non secondi. Indeterminati come il pezzo di orbita che compie la terra per adeguarsi al calendario, involontari come la riserva di aria segreta nei polmoni che ci tiene in vita tra i respiri…eterni!>.

Guardo l’orologio: si è fermato. Tutto è fermo e vuoto nella stanza di cristallo.

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